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Il franchising in tribunale

Una breve rassegna di giurisprudenza può essere utile per comprendere come i nostri tribunali stanno interpretando questa normativa. Di seguito si riportano alcune massime estratte da sentenze relative a controversie in materia di franchising dei Tribunali Italiani.

– Tribunale di Milano sentenza 03.03.2015: In materia di franchising, il principio di buona fede puo’ essere applicato all’ipotesi in cui le parti non si sono avvalse della facoltà prevista dalla legge (l’art. 3, c. 4, della legge 129/2004) di stabilire l’ambito di eventuale esclusiva territoriale a favore dell’affiliato in relazione ad altri distributori ovvero a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante. Il patto di esclusiva territoriale (che risponde all’esigenza di garantirsi la protezione nei confronti degli altri affiliati, cd. concorrenza orizzontale) non costituisce infatti un elemento essenziale del contratto né, si ritiene, un c.d. naturalia negotii. Ed. in assenza di tale patto, un pur minimo grado di protezione territoriale appare indispensabile giacché in caso contrario il franchisee non si assumerebbe l’onere di assumere ingenti spese per integrarsi nella rete e lo schema negoziale rischierebbe di essere minato in radice, sotto il profilo causale. Ne inferisce che l’inserimento da parte dell’affiliante nella propria rete distributiva di un altro distributore, tenuto conto della asimmetria economica nella quale si collocano i due contraenti, appare una scelta particolarmente delicata, che potrebbe essere potenzialmente abusiva, riducendo le capacità di profitto del vecchio affiliato e massimizzando quelle dell’affiliante (a fortiori qualora il nuovo rivenditore sia lo stesso franchisor). Alla luce di tali considerazioni, il ricorso al canone di buona fede consente di sanzionare anche le condotte che, formalmente corrette sotto il profilo formale (nella specie, in caso di mancanza di una esclusiva a favore del franchisee), hanno reciso il rapporto fiduciario sotteso al contratto ed inciso negativamente sull’assetto contrattuale, ponendosi in contrasto con l’obiettivo dell’integrazione imprenditoriale quale finalità ultima del franchising e, pertanto, giustificandone la risoluzione.

– Tribunale di Milano sentenza 24.06.2015: In materia di contratto di franchising, avente ad oggetto l’uso dei marchi e dei segni distintivi per lo svolgimento, in affiliazione, dell’attività contrattualizzata, la prosecuzione dell’attività dell’affiliato nonostante sia intervenuta la risoluzione del vincolo per inadempimento del medesimo, legittima la richiesta della misura cautelare interdittiva di ogni attività ricompresa tra quelle contrattualizzate. Infatti, con il venire meno del legame contrattuale di licenza viene altresì meno la fonte che autorizzava l’utilizzo dei segni distintivi di cui la parte inadempiente è licenziataria, consentendosi così al titolare dei marchi e dei segni distintivi di azionare non solo i diritti nascenti dal contratto, ma anche quelli assoluti di privativa, in coerenza con quanto previsto dall’art. 20 CPI che, tra i diritti attribuiti al titolare del marchio attesta ricompreso quello di disciplinare quali attività, contraddistinte dal segno di cui è titolare, possano essere legittimamente effettuate, sicchè gli eventuali inadempimenti dei criteri dettati nel contratto di licenza determinano anche violazione del diritto assoluto. Per il principio dell’unitarietà dei segni distintivi ex art. 22 CPI, il divieto di utilizzazione si estende anche all’insegna e ad ogni altro segno distintivo.

– Tribunale di Torino sentenza 28.06.2016: In un contratto di franchising, l’inadempimento di una parte deve essere sostenuto da un quadro probatorio ben definito per portare all’accoglimento delle conseguenti domande di risoluzione anticipata, restituzione dei canoni pagati e risarcimento del maggior danno patito. Nel caso di specie, non si può dire nemmeno integrato il requisito della “gravità” dell’inadempimento: l’obbligazione fondamentale del franchisor è quella di consentire l’uso e lo sfruttamento commerciale del marchio, beneficiando dell’attività promozionale e pubblicitaria del titolare; per contro, la lamentata parziale fornitura degli allestimenti dei locali commerciali va intesa senz’altro come prestazione a carattere marginale nella complessiva economia del contratto e quindi la sua mancata esecuzione va considerata “di scarsa importanza”.

– Tribunale di Milano sentenza del 31.01.2017: ll tribunale di Milano si è espresso  affermando che la previsione di un patto di non concorrenza post contrattuale inserito in un contratto di affiliazione commerciale (c.d. franchising) risulta inapplicabile in assenza di trasmissione all’affiliato da parte dell’affiliante del know how , con formazione iniziale specifica per lo svolgimento dell’attività oggetto di limitazione, secondo quanto previsto dall’art. 101 TFUE e dal Reg. (CE) n. 2790/1999. Nella sentenza viene sottolineata l’importanza dell’aspetto di protezione del know how per valutare la necessità e la liceità di una clausola che preveda una restrizione alla concorrenza.

In fatti il principio della libera concorrenza è derogabile solo se volto a tutelare il trasferimento di quel patrimonio di conoscenze pratiche derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’affiliante, patrimonio che è segreto, sostanziale ed individuato (l. 129/2004, art. 1. co. 3 lett. a).

Proprio alla luce del fatto che risulta indispensabile la protezione del know how, il Tribunale  in questo caso sancisce l’inapplicabilità di un patto di non concorrenza laddove l’affiliato possieda già un bagaglio di conoscenze tali da escludere che l’affiliante possa aver trasmesso una serie di conoscenze ed informazioni segrete . Infatti, come dedotto in sentenza, nel caso di specie era pacifico che l’impresa individuale affiliata possedesse già una pregressa esperienza professionale nel settore di attività oggetto del patto. Infatti nello stesso contratto di franchising le parti concordavano di ridurre drasticamente la formazione iniziale dell’affiliato.
In aggiunta a questo fondamentale aspetto, il giudice sottolinea che le normative comunitarie, a differenza dell’art. 2596 c.c., non prevedono l’alternatività, ma la cumulabilità della limitazione territoriale con la specifica individuazione dell’attività oggetto del patto di non concorrenza. Da ciò, se ne deduce che non solo il patto risulta inapplicabile per il mancato trasferimento del know how, ma anche per l’assenza di una qualsivoglia determinazione di tipo territoriale. Il Tribunale, dunque, stabilisce il principio secondo cui in assenza di trasferimento di know how da un’impresa ad un’altra, diviene inapplicabile il patto di concorrenza post contrattuale posto a protezione e tutela dell’investimento dovuto al trasferimento del know how stesso.

– Tribunale di Torino sentenza 09.05.2017: Non è fondata la domanda risarcitoria fondata sull’abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 9 della legge 192/1998 quando l’affiliato non abbia dimostrato di trovarsi in una situazione di dipendenza economica rispetto all’affiliante e, in particolare, nell’ipotesi in cui questi non sia l’unico soggetto che gestisca una catena in franchising di articoli oggetto del contratto di franchising e la società affiliata abbia quindi ampie possibilità di reperire alternative soddisfacenti sul mercato. Le limitazioni commerciali previste da un contratto di franchising non integrano di per sé un abuso di posizione dominante, che comunque non può ritenersi immanente alla qualifica di franchisor, ma deve essere dimostrata essendo tali limitazioni infatti normalmente compensate dai vantaggi derivanti dal rapporto di affiliazione sotto il profilo dell’immagine più strettamente legata a quella del produttore, della fruizione delle metodologie di vendita e della preparazione tecnica del personale, del maggior assortimento e della più pronta disponibilità della merce. Tutti elementi che, nel caso di specie, si ravvisano nel contratto stipulato fra le parti e che concorrono a escludere che si sia verificato un abuso di posizione dominante ad opera della affiliante.

– Tribunale di Milano sentenza 08.03.2017: il Tribunale di Milano si è pronunciato su un contratto di franchising, in cui non si riconosceva al franchisee (o affiliato) alcuna esclusiva di zona, per cui il franchisor (o affiliante) si riteneva libero di aprire punti vendita con altri franchisee dove gli pareva, anche in prossimità di punti vendita di precedenti franchisee.

Il Tribunale di Milano, dopo aver precisato che la legge 6 maggio 2004 n. 129 relativa al franchising non considera l’esclusiva di zona come elemento essenziale del contratto, ha affermato che, qualora nel contratto di franchising non sia prevista l’esclusiva di zona a favore del franchisee, il franchisor è comunque tenuto a creare la propria rete di negozi in franchising in modo razionale e senza sovrapposizioni tra franchisee, in applicazione del principio generale di buona fede nell’esecuzione del contratto.

Inoltre nella sentenza in esame il Tribunale di Milano ha stabilito che:

  • anche quando la zona non viene concessa in esclusiva al franchisee, costituisce corretta prassi commerciale quella di studiare la distribuzione territoriale dei punti vendita, in modo da evitare che ci siano punti vendita troppo vicini che si facciano concorrenza tra loro e che si lascino scoperte zone in cui possa esservi domanda delle merci offerte;
  • la scorretta distribuzione territoriale dei negozi in franchising rappresenta una violazione da parte del franchisor del principio generale di buona fede nell’esecuzione del contratto e determina danni ai franchisee, i quali sono costretti a subire le conseguenze pregiudizievoli dell’errata organizzazione complessiva della rete distributiva da parte del franchisor.

Da un punto di vista pratico la sentenza n. 2648 del 2017 del Tribunale di Milano è interessante, in quanto di fatto vieta, all’interno di una stessa rete di negozi in franchising, l’apertura di nuovi punti vendita in prossimità di punti vendita preesistenti di altri franchisee, anche quando nel contratto di franchising manca l’esclusiva di zona in favore dei franchisee.

– Tribunale di Torino sentenza 06.06.2017: E’ inadempiente la parte di un contratto di affiliazione commerciale che non provveda al pagamento delle royalties a seguito della comunicazione di recesso, dichiarata inefficace. E’ inadempiente all’obbligo di non concorrenza indiretta di un contratto di affiliazione commerciale la parte che – sia prima che dopo l’emissione di un’ordinanza cautelare che inibisca tale attività – abbia frequentato un’attività commerciale che fornisca servizi in concorrenza con l’ex affiliante, assumendo la funzione di titolare o socio di fatto della stessa o comunque svolgendovi attività lavorativa in collaborazione con il personale. Va respinta la domanda diretta ad accertare un concorso negli inadempimenti contrattuali dell’ex affiliato da parte delle società presso cui l’ex affiliato svolge, di fatto, le proprie attività in concorrenza quando non sia stato provato l’elemento soggettivo ex art. 2043 c.c., non avendo dimostrato che tali società conoscessero specificamente le clausole contrattuali (nella specie, relative all’obbligo di pagamento delle royalties e agli obblighi di non concorrenza) del contratto di affiliazione commerciale.

– Tribunale di Milano sentenza 12.06.2017: Viola i diritti ex artt. 20 e 23 del titolare del marchio il franchisee che in un punto vendita c.d. “monomarca” offre in vendita prodotti privi del marchio, prodotti di altri fornitori ma a marchio del franchisor o prodotti recanti un marchio differente da quello del franchisor. L’illegittima appropriazione dell’avviamento, dei pregi e del know-how, mediante attività svilenti dovute alla vendita di prodotti di qualità inferiore a quelli del franchisor, comporta l’erosione del valore del marchio e della brand image del medesimo, intaccando l’alto posizionamento ed il livello di eccellenza del marchio e dei prodotti che contraddistingue. Questa voce di danno che assorbe quella allegata in termini di danno morale (venendo quest’ultimo a sovrapporsi e coincidere in una società commerciale con quello subito dall’immagine aziendale) non può che essere liquidata in via equitativa, in misura pari ad una quota del danno patrimoniale.

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